MOVIMENTO

PSICOSPIRITUALE

 

PER UNA POLITICA SOCIALE E SANITARIA INTEGRATA COL BISOGNO

DI CRESCITA INTERIORE PSICOLOGICA E SPIRITUALE DELL’UOMO.

 

“Capire quindi come si possa favorire la crescita interiore delle persone mentre ci si occupa di loro negli aspetti socio sanitari è l’integrazione che ci attende, la sfida che non possiamo perdere. Non è l’abolizione dei valori e dei dogmi quello che realmente ci occorre, ma che ciascuno possa liberamente scegliere a quali valori e dogmi riferirsi per trovare un senso nella sua propria vita”.

 

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LIBERTA’ DI CURA IN PSICHIATRIA

 

PREVENZIONE DEL TRATTAMENTO SANITARIO OBBLIGATORIO (TSO)

NELLA REGIONE SARDEGNA

 

(PRIMA BOZZA)

 

La motivazione alla proposta di attuazione di un progetto sperimentale di cura nella realtà territoriale sarda per la psichiatria, nasce dalla profonda convinzione che la maggior parte dei TSO sarebbero derubricabili in trattamenti sanitari volontari TSV con un adeguato programma che qui mi accingo ad illustrare.

L’attuale legge in vigore, nata dall’esperienza maturata con Franco Basaglia, non va necessariamente modificata, ma va soprattutto correttamente attuata, ovvero applicata secondo lo spirito con cui è stata ideata.

 

PARTE PRIMA

I contenuti della parte prima sono solo una premessa alla proposta vera e propria, presentati poi nella PARTE SECONDA.

 

La libertà di cura non è abbandonare la persona nel suo nulla, ma accompagnarla e sostenerla nella sua ricerca di equilibrio fisico e psicologico.

 

PREMESSA FONDAMENTALE. La libertà non è fare ciò che “ci pare e piace” ma nasce dal mettersi in profondo ascolto di se stessi per riconoscere cosa davvero sia autentico ed essenziale per noi, e prosegue col valutare poi quanto questo sia concretamente attuabile e vivibile secondo le leggi, le norme, i regolamenti di quel territorio o di quel contesto sociale. Ciò significa che la libertà è fare ciò che va fatto secondo la nostra natura intima e secondo le norme. Potremo paradossalmente affermare che la libertà e “fare quello che va fatto” nel rispetto di se stessi e degli altri.

L’etica non è altro che l’espressione e l’applicazione delle leggi dell’amore tra esseri umani alla vita quotidiana e alle relazioni con l’altro. Quando l’etica è applicata alla professione diventa deontologia. Ne deriva che la deontologia professionale rappresenta il modo in cui l’amore regolamenta il rapporto tra un uomo, il professionista, ed un altro uomo, il cliente, che nel campo sanitario si chiamano “medico e paziente”. Quando in occasione di lavoro non vengono rispettate le norme etiche e deontologiche, si commette sicuramente una grave mancanza, qualsiasi siano le motivazioni che hanno determinato quella situazione critica.

Il mio intento non è fare uno sterile atto d’accusa ma segnalare, come libero cittadino, ma anche come professionista informato sulla realtà psichiatrica territoriale, le evidenti criticità di un sistema organizzato che, a parere dello scrivente, oramai da decenni risulta inadempiente nel dare una adeguata risposta ai bisogni della comunità umana nel campo della salute mentale.

 

Qui di seguito una sintetica e certamente non esaustiva analisi sulla realtà territoriale di cura e sulle possibili criticità da affrontare, eventualmente anche mediante un aperto dibattito culturale pacifico tra istituzioni e cittadinanza, sui seguenti punti: la storia del Trattamento Sanitario Obbligatorio e le normali procedure del TSO, la “presa in carico” nel Centro di Salute Mentale ed i trattamenti personalizzati, il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, il Consenso informato, l’ipotesi della Violenza Assistita.

 

1 - DIBATTITO APERTO SULLA ASSISTENZA PSICHIATRICA NEL TERRITORIO. Desidero quindi stimolare un serio dibattito sulla organizzazione dell'assistenza psichiatrica del nostro territorio, con lo scopo di evidenziare le criticità e ipotizzare le possibili soluzioni. Attualmente infatti si tende a fornire un supporto quasi esclusivamente basato sulla terapia farmacologica. Con la motivazione dei "livelli essenziali di assistenza" la preziosa risorsa del farmaco diventa l'unico rimedio effettivamente fornito e vengono praticamente annullate tutte le iniziative, tra l'altro a costo zero, che i tanti professionisti della struttura pubblica sarebbero in grado di fornire, se non venissero messe in atto limitazioni alla loro operatività. In realtà, la vera motivazione di questo approccio sembrerebbe essere un pregiudizio culturale dove la paura di possibili responsabilità nel condurre i processi di cura nei tanti modi possibili riduce il consenso a procedere, e di conseguenza sembra prevalere la filosofia della medicina difensiva. La visione eccessivamente medicalizzata dei nostri servizi sembra quindi la conseguenza del timore di sbagliare, in quanto, per lo stesso pregiudizio culturale, prescrivere un farmaco sembra essere sempre un intervento ben fatto a prescindere, anche se la cura è inefficace e anche se si verificano pesanti effetti collaterali. La scienza ha fatto quel che poteva, il paziente sta male ma la cura è giusta e va continuata, bisogna aspettare. In questo modo, ovviamente, si riduce il ventaglio delle alternative di cura al mero intervento farmacologico, senza integrarlo adeguatamente con tutte le risorse alternative possibili che scienza e gli approcci umanistici ci mettono, attualmente, a disposizione. Se la persona continua a stare male, unico rimedio è aumentare i dosaggi o il numero dei farmaci prescritti. In questo modo i vantaggi derivanti dalla terapia farmacologica ad un certo punto superano così il loro "picco massimo di efficacia" per entrare in un peggioramento graduale della qualità della vita. Coloro che non si ritrovano in questa visione riduttiva e disumanizzante, si allontanano e perdono la possibilità di usufruire del servizio pubblico, con gravi conseguenze per il loro equilibrio. Gli inevitabili scompensi clinici che seguono, vengono a quel punto trattati con il ricovero, se necessario eseguito in modo forzato (TSO). Anche nel contesto ospedaliero mancano le risorse per un processo di cura integrato, che possa fornire un'autentica possibilità di innescare un processo virtuoso di crescita personale. La comprensibile scarsa aderenza a questo tipo di approccio disumanizzante determina una vera e propria "carriera psichiatrica indotta" ovvero educa le persone che, loro malgrado, si sono ritrovate, nel corso della loro difficile esistenza, ad entrare in una profonda crisi personale, verso uno stile di vita che sicuramente non era quello per cui sono nate e che hanno desiderato vivere.

La mia non è semplicemente un’accusa fine a se stessa, il mio intento è quello di denunciare la situazione in cui versa l'assistenza psichiatrica del nostro territorio perché si arrivi, con l’intervento di tanti,  finalmente a dei validi correttivi. Da troppi anni si sviliscono tutte le iniziative che i tanti operatori preparati sarebbero in grado di organizzare se fosse loro concesso. Nonostante sia previsto che ai dirigenti medici e psicologi sia assegnato un incarico specifico di responsabilità in un determinato settore, con lo scopo di far fiorire le competenze in attività terapeutiche, questa possibilità continua ad essere trascurata e negata. È probabile che il "prendersi cura della persona" non sia visto come un elemento fondamentale del processo di cura, come se dovessimo curare una malattia e non la persona che soffre di una malattia. Eppure la scienza ha fatto negli ultimi decenni dei passi da gigante nelle conoscenze del funzionamento biologico e psicologico, riuscendo a trovare, per esempio, le correlazioni tra mente biologica, struttura psicologica, apparato endocrino, apparato immunitario. Anche i percorsi psicoterapeutici individuali e di gruppo oggi possibili, sono talmente vari e diversificati, che limitare l'intervento ad un unico approccio autorizzato, taglia fuori dalla possibilità di assistenza tutti coloro che, inevitabilmente, non si ritrovano in quell'approccio. Perché, in realtà, persone diverse hanno bisogno di percorsi diversi. Il mio auspicio quindi è che si dia avvio ad un nuovo corso della assistenza psichiatrica nella struttura pubblica, che sia ricco e diversificato, affinché la crisi diventi effettivamente una opportunità per crescere e non sia l'inizio di un declino inesorabile del valore profondo della nostra unica vita.

 

2 - STORIA DEL TRATTAMENTO SANITARIO OBBLIGATORIO (TSO). Erano i tempi della triste realtà manicomiale, ovvero di uomini privati di tutti i diritti fondamentali e confinati dal contesto sociale, una storia oramai conclusa dell’umanità, alla quale abbiamo purtroppo assistito impotenti. Una storia che è durata fino a quando, 42 anni fa, dopo un lungo iter di valutazione, con Franco Basaglia e le nuove leggi, la storia è cominciata a cambiare: chiusura progressiva dei manicomi e attivazione dei Centri di Igiene Mentale (CIM) chiamati poi Centri di Salute Mentale (CSM), e attivazione dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC). Si dava inizio quindi, all’assistenza psichiatrica territoriale, e non più in luoghi chiusi.

Con la chiusura dei Manicomi, il problema diventava come fare nel caso di persone gravemente e cronicamente disturbate psichicamente, avulse completamente dal contesto sociale, che rischiavano di rimanere senza assistenza e quindi in un degrado senza fine. Come fare affinché fosse possibile dare anche ad esse, comunque, una possibilità di cura? La soluzione si è trovata, ed è stata l’attivazione di una precisa procedura, studiata a proposito, che prende il nome di Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO).

La soluzione trovata con quella nuova legge sembrava essere veramente efficace, almeno sulla carta. Essa, dopo più di 40 anni, tutt’oggi consente al medico di non abbandonare al proprio destino le persone che, in modo continuato nel tempo, non sono più in grado di valutare correttamente la realtà, e quindi di accettare, prima o poi, uno dei possibili percorsi di cura. Si tratta quindi di uno strumento terapeutico nelle mani del medico, senza il quale in certi casi noi medici non sapremmo veramente come fare, e da utilizzare nei casi, che in realtà sarebbero un’esigua minoranza, nei quali davvero tutto l’amore umano e la competenza professionale del medico e degli altri operatori sanitari, non trovano, in alcun modo, uno sbocco possibile. La procedura è teoricamente ben studiata e protettiva dei diritti della persona, ma trattandosi di una procedura particolare e complessa, richiederebbe, di norma, un tempo di attuazione che potrebbe essere, nel suo svolgimento naturale, di qualche giorno per essere attuata correttamente. Il fatto che sia stata studiata una procedura che richiede questo tempo non deve meravigliare perché, come sottolineato all’inizio, era pensata per situazioni davvero particolari, nelle quali l’alternativa, senza questa possibilità prevista per legge, sarebbe stata quella di non poter agire in nessun modo, e di abbandonale quindi quella persona al suo infausto destino.

Un medico, non necessariamente specialista in psichiatria, ma che di fatto normalmente è lo specialista psichiatra incaricato dell’assistenza per quella persona, o in caso di primo contatto lo specialista psichiatra di competenza in quel territorio  incaricato delle urgenze, dopo aver ripetutamente provato con ogni mezzo, con quella persona, ogni tentativo di collaborazione ad una cura possibile ed efficace nel consentire di iniziare un cammino di guarigione da un grave sindrome clinica in atto, può fare la PROPOSTA di TSO, piuttosto che lasciare quella persona ed i suoi familiari nella impossibilità di un decorso accettabile di vita. Questo consiste nel dichiarare, sotto la propria responsabilità, che quella persona è affetta da una grave patologia psichiatrica che necessita di urgenti cure mediche, che la persona, a causa della sua patologia (e non per scelta ideologica su un diverso orientamento di trattamento) non è in grado di capire ed accettare quella proposta di cura, che quindi risulta necessario ed indispensabile il trattamento mediante un ricovero in ambiente ospedaliero. Un secondo medico, questa volta necessariamente psichiatra, crea quindi un nuovo contesto relazionale e rivaluta la situazione. Questo perché è doveroso consentire una nuova opportunità, in quanto è possibile che la reazione avversa alle cure sia, per esempio, conseguenza di una dinamica conflittuale con il medico o lo psichiatra curante o per una diversità di vedute sulle proposte di trattamento, affinché la persona abbia una nuova possibilità per essere accompagnata ad una possibile accettazione di un trattamento. Se anche questo secondo tentativo, differenziato dal precedente, dovesse fallire, lo psichiatra CONVALIDA la proposta di TSO proposta dal primo medico e dispone il ricovero forzato in ambiente ospedaliero per le cure del caso. Questo ricovero durerà sette giorni, rinnovabili, se necessario, per altri sette, e poi ancora per altri sette, e così via, fino al raggiungimento di un compenso clinico. Teoricamente il periodo di sette giorni può essere interrotto anticipatamente, ma questo non avviene praticamente mai. Prima di attuare “di fatto” il ricovero forzato, è necessario fare arrivare la PROPOSTA e la CONVALIDA del TSO al Sindaco di quel comune, che dopo aver acquisito la pratica, ovvero essere venuto a conoscenza della situazione di un cittadino del suo comune, per eventuali interventi sul caso o per eventualmente verifica, emette l’ORDINANZA. In realtà, di fatto l’emissione dell’ordinanza è solo una pratica amministrativa automatica, nessuna verifica viene fatta da parte del Comune. Solo a quel punto il TSO dovrebbe essere attuato concretamente, con il prelievo del paziente dal luogo in cui si trova, per il suo ricovero ospedaliero forzato, ovvero contro la sua volontà, e le cure necessarie del caso, altrettanto forzate. La legge non specifica con esattezza chi debba compiere fisicamente questo atto di trasferimento in ambiente ospedaliero, ma essendo il Sindaco collegato alla Polizia Municipale, la consuetudine è che siano i vigili urbani a dover compiere questo lavoro di sostegno ai sanitari, medici ed infermieri, per la concreta e fattiva realizzazione del ricovero forzato. Anche sulle modalità di attuazione di questo tipo di intervento ci sarebbero molte considerazioni da farsi, per esempio se trasferire semplicemente la persona in ospedale che viene valutata clinicamente e quindi curata, o se prima effettuare delle cure sedative per facilitare il trasferimento. Posso affermare che purtroppo anche su questo frangente, le procedure non sempre riescono a rispettare la dignità della persona, nel senso che, per comprensibili motivi pratici, attuare cure mediche farmacologiche in un contesto inadeguato, porta gli operatori ad attuare modalità che possono essere considerate un atto disumano.

Il fatto che questa procedura sia così complessa, e che di fatto necessiti, di norma,  di un periodo adeguato di attuazione, rende poco agevole la sua applicazione corretta. Questo ha portato nel tempo, negli anni e nei decenni, a delle modalità attuative, che di fatto, pur nella buona fede dei sanitari è diventata, nel tentativo di snellire la pratica, in certi casi, un vero abuso dei diritti del cittadino, ovvero una semplificazione di tutte le procedure ed un salto dei vari passaggi. In conseguenza di questa semplificazione, le procedure vengono attuate senza che la persona che subisce l’intervento sia in grado di capire correttamente le caratteristiche della proposta terapeutica, e addirittura cosa stia realmente accadendo. Non è strano infatti che il paziente, nel momento in cui comprende la forzatura del ricovero e la perdita del suo diritto di esprimere una preferenza, dica quasi sempre, con rabbia, che si sta compiendo un sopruso e che sporgerà denuncia. Evidentemente il fatto che esista una modulistica e una procedura legale che autorizza i sanitari a privare della libertà una persona, non annulla la necessità di un lungo e delicato lavoro finalizzato alla corretta informazione per favorire la comprensione del problema vissuto da quella persona e delle possibili procedure di legge.

Vediamo quindi insieme quali potrebbero essere i punti di criticità nella applicazione di questa legge. Un punto su cui si potrebbe molto discutere, che ha dato adito a numerose polemiche, è la valutazione se quel comportamento sia effettivamente associato ad una determinata patologia psichiatrica, in quanto ovviamente è possibile inquadrare comportamenti “alterati” di diversa origine, con una possibile diagnosi di “alterazione dell’umore” o di “generica psicosi”. Non era questo, ovviamente, lo spirito con cui è stata fatta la legge, pensata per le persone affette da gravi psicosi croniche come la Schizofrenia associata a grave alterazione delle capacità sociali e di gestione autonoma delle funzioni della vita quotidiana. Fa una certa impressione vedere queste procedure applicate anche a cittadini che, pur assumendo comportamenti non consueti o socialmente criticabili, vengono in modo incongruo avviati ad un percorso di repentina privazione della libertà, pensato sicuramente per situazioni di altro genere. Il punto di criticità sarebbe nella interpretazione sulla “necessità di cura” in quella situazione, perché pur essendo evidente la necessità di un intervento medico, psicologico, psicosociale, o di ordine pubblico e di rispetto delle leggi, certamente non è il TSO lo strumento sempre più adatto nella gestione di molte situazioni in cui invece questo strumento viene, probabilmente con eccessiva leggerezza, utilizzato; e questo anche quando quella situazione non costituisce, in quel momento, un problema di pericolo né per se né per gli altri. Intendo dire che ci sarebbe, in molti casi, tutta la possibilità di valutare le vie alternative di risoluzione di quella situazione. Sarebbe solo molto più dispendioso in termini di risorse e di tempo. In ogni caso il TSO non può essere uno strumento di controllo sociale.

In sostanza il TSO, questa particolare modalità di intervento è diventata, negli anni e nei decenni, una normale procedura terapeutica, una pratica facile da formalizzare ed attuare, anche quando effettivamente sarebbero altre le risorse da attivare in quelle situazioni se ci fosse il tempo e la voglia, ma oserei dire anche la capacità. Il paradosso più evidente è l’uso della compilazione del modulo di “stato di necessità” che snellisce ulteriormente le procedure, quando un stato di necessità reale è per sua natura una situazione in cui si crea la necessità di intervento indispensabile da attuare nell’immediatezza, allo scopo di salvaguardare la incolumità di quella persona o di altre persone, che quindi non prevede la compilazione di un modulo, ma l’azione rapida di chiunque si trovi lì, compresi i sanitari e le forze dell’ordine. 

Il problema, secondo il mio punto di vista, non è nella legge in sé, ma nella sua applicazione, anche se certamente è possibile fare dei tentativi di miglioramento della legge. Nel tempo, la sua applicazione si è allontanata enormemente dallo spirito con cui questa legge era stata pensata. Ed ancora più a monte, il problema sta nella inadeguatezza nelle procedure normali di cura nei servizi territoriali, che presentano anch’esse delle evidenti criticità, e che favoriscono l’evoluzione a situazioni difficili, che poi vengono inevitabilmente trattate con il TSO. Capite bene che se gli operatori di un Centro di Salute Mentale non vedono per un lungo periodo una persona che rifiuta le cure, perché l’unico strumento proposto è il farmaco che non sempre viene accettato, senza attuare un adeguato programma per creare una valida occasione di riflessione sui problemi e sul senso della vita, senza quindi avere l’opportunità di arrivare ad una alleanza umana che poi è anche terapeutica, è inevitabile che poi si arrivi a situazioni sempre più complesse, conflittuali, estreme, e quindi di disagio soggettivo e relazionale, ed è facile a quel punto ricorrere alla pratica di TSO incongrui. Per questo motivo, ho maturato negli anni la ferma convinzione che la “normalità della vita” con tutte le sue risorse umane, deve essere il terreno fondamentale nel quale si costruisce la attività di un Centro di Salute Mentale, ovvero la possibilità di una vera libertà di cura in psichiatria. Dedicare tutte le risorse solo ai “livelli essenziali di assistenza” è sicuramente una battaglia persa in partenza. Il ricorso ai livelli essenziali di assistenza, ovvero la necessità di contenere la spesa sanitaria, la riduzione del personale e delle risorse destinate alla sanità in campo psichiatrico, la mancanza di una vera “cultura della libertà di cura” e di trattamenti personalizzati, la mancanza di integrazione tra le cure mediche e le altre risorse disponibili nel territorio, sono alcuni degli elementi che conducono ad una riduzione della efficienza di cura nei servizi pubblici, e che quindi indirettamente contribuiscono ad un ricorso eccessivo ed inadeguato della misura del TSO.

La conseguenza di tutto questo è molto grave, perché la mancanza di ascolto e di riconoscimento dei veri problemi che stanno alla base dello scompenso clinico e che hanno favorito il momento di crisi, che da esistenziali diventano poi psicologiche e biologiche, il tentativo di coprire gli scompensi con il facile ricorso ad interventi farmacologici, anche forzatamente, rendono la qualità dell’assistenza psichiatrica sempre più insufficiente a fornire una reale occasione di crescita delle persone e di superamento evolutivo e costruttivo della crisi. Inoltre la privazione della libertà nel momento della esecuzione del trattamento obbligatorio e durante tutto il periodo di ricovero, causa senz’altro ulteriori danni psicologici che si sommano a quelli già non elaborati della persona coinvolta in un momento di così grave scompenso psichico. Quasi sempre infatti, il tutto viene condotto senza la possibilità di far comprendere al paziente ciò che sta realmente accadendo, così che il paziente giudica questo comportamento assurdo e prevaricante e senza una logica per lui comprensibile e quindi accettabile.

Sarebbe quindi quanto mai opportuno attivare un serio dibattito per favorire una cultura della libertà di cura nella psichiatria, che parte dall’inizio del percorso e non dalla fine, e che vedrebbe diversi momenti focali sui quali instaurare un diverso modello di cura nel campo della Salute Mentale.

 

3 - LIBERTA’ DI CURA IN PSICHIATRIA E TSO - NORMALI PROCEDURE. La procedura del Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) è una procedura eccezionale, DA ATTUARSI SOLO IN CASI MOLTO PARTICOLARI, perché priva la persona della libertà. Non è una normale pratica terapeutica. Viene messa in atto perché il medico non ha trovato nessun’altra possibilità per aiutare una persona che, in conseguenza di una grave patologia psichica, può essere in pericolo o causare pericolo per altri, in conseguenza della grave alterazione delle sue capacità di autonomia e di relazione, a causa della sua malattia.

Il medico che ipotizza questa procedura ha il dovere di fare una visita approfondita ed accurata, in ambiente adeguato, dove è possibile confrontarsi sulla situazione in atto e sulle diverse procedure possibili di intervento. Nel caso la persona non sia favorevole al tipo di cure proposte, è suo diritto esprimere il suo rifiuto. Solo nel caso il medico valuti la presenza di una grave sindrome clinica in atto che costituisce pericolo per se stessa o per altri, il medico a quel punto ha il diritto di compilare il modulo di PROPOSTA di TSO.

La persona a quel punto ha il diritto ad una seconda visita con uno Specialista in Psichiatria, approfondita ed accurata, in ambiente adeguato, dove sia possibile confrontarsi sulla situazione in atto e sulle diverse procedure possibili di intervento. Nel caso che essa non sia favorevole al tipo di cura proposte, se il medico ritiene che sia affetta da una grave sindrome clinica in atto che costituisce pericolo per se o per altri, può firmare la CONVALIDA di TSO. Proposta e convalida poi devono necessariamente essere inoltrate al Sindaco del Comune di quel territorio, affinché, se non ci sono impedimenti o accertamenti da compiere, possa essere emessa una ORDINANZA. Solo con l’ordinanza regolarmente emessa i sanitari hanno la possibilità di trasferire la persona in ambiente ospedaliero anche contro la sua volontà, eventualmente con la collaborazione della Polizia Municipale, e possono somministrare delle terapie farmacologiche, anche contro la sua volontà.

Ricordiamo che durante tutto questo iter valutativo, ed anche dopo durante tutto il ricovero, la persona ha il diritto di comunicare con un legale di sua fiducia o con un medico di sua fiducia, oltre che con i suoi familiari o con chiunque abbia bisogno.

 

4 - LA PRESA IN CARICO NEI CENTRI DI SALUTE MENTALE (CSM). I Centri di Salute Mentale, un tempo chiamati Centri di Igiene Mentale, sono le strutture che, con la chiusura dei Manicomi, sono chiamate a garantire l’assistenza psichiatrica territoriale. Il concetto è quello della apertura e della accoglienza, per dare una svolta decisa e chiara alla cultura del pregiudizio e dell’intolleranza, che caratterizzavano la “chiusura verso la diversità” caratteristica della vecchia cultura manicomiale.

La cultura della libertà di cura in psichiatria, deve quindi riguardare soprattutto il normale funzionamento del Centro di Salute Mentale. L'accoglienza nel CSM avviene sia su richiesta del medico curante sia direttamente su richiesta della persona che desidera ricevere aiuto. Per questo motivo il normale funzionamento del Centro di Salute Mentale dovrebbe prevedere modalità accoglienza e di apertura alla relazione umana adeguate, ancora prima che sia attuato un intervento medico, in senso strettamente farmacologico. Il lavoro dello psichiatra implica e richiede una apertura all'indagine del funzionamento psichico, che è poi intimamente connesso con quello biologico, ma che da un altro lato confina con quello sociale ed esistenziale del contesto relazionale di riferimento e dell’ambiente nel quale quella persona è inserita. Tutto il personale operativo del CSM, nelle sue diverse figure professionali o volontarie, dovrebbe quindi collaborare con l'intento del medico di creare il contesto adatto per l'apertura del paziente o dei familiari e per favorire una alleanza umana, che diventa alleanza terapeutica e che poi è indispensabile per una adesione ad un progetto terapeutico.

L'enorme varietà di situazioni, pur dovendo essere anche inquadrate in definiti “criteri diagnostici” non possono essere poi svalutate in una visione troppo ristretta di categorie mentali del terapeuta, perché questo riduce grandemente la possibilità di un intervento veramente efficace. Molte situazioni che si presentano alla osservazione del CSM hanno bisogno di una capacità di interpretazione che non sempre riusciamo a collocare esattamente in una “sindrome clinica acuta in atto” ma sono relative a quegli “aspetti della personalità” che non sono aggredibili ed affrontabili solo con una terapia farmacologica. Questo non vuol dire che questa “grande varietà di casi” non sia di pertinenza del CSM, in quando il disagio psichico, realmente presente come conseguenza di questa disarmonia dell'esistere, comporta sintomi fisici ed emotivi che sono certamente di psicologi e psichiatri, ovvero di pertinenza del Centro di Salute Mentale.

Siamo chiamati quindi a superare molti pregiudizi culturali che ancora oggi farebbero pensare che il CSM sia esclusivamente una struttura medicalizzata di mero intervento farmacologico. La vecchia mentalità manicomiale, che prevedeva modalità prevaricanti della libera volontà espressiva della persona, ancora oggi sembra emergere come tentativo di cura e di controllo sociale. Purtroppo quindi possiamo affermare che questa chiusura mentale non sembra completamente superata. E’ come se le istituzioni, avendo superato la realtà manicomiale chiusa, avessero riproposto identiche modalità di chiusura e di intolleranza nel territorio aperto. Il medico quindi deve fare di tutto per recuperare una dignità perduta della sua arte terapeutica e deve riuscire ad integrare la sua scienza con le grandi risorse che l'evoluzione umana ha donato nei diversi campi come risorsa per il benessere fisico e psicologico. Gli aspetti biologici e psicologici, devono armonizzarsi con quelli sociali e quelli esistenziali o spirituali, compresa la ricerca del proprio senso della vita secondo la propria natura personale più essenziale. Il disagio umano più profondo infatti sarebbe collegabile alla difficoltà di realizzarsi secondo la propria natura più intima, che possiamo chiamare Vero Sé. La cura deve quini essere orientata anche al recupero della propria individualità più essenziale persa, ovvero smarrita e confusa nel difficile cammino di vita, e che poi alla fine si manifesta come crisi, con sintomi fisici e psichici che possiamo chiamare malattia.

La presa in carico nei Centri di Salute Mentale (CSM), dovrebbe essere quindi sempre aperta alla possibilità di libera scelta, se il paziente lo richiede, affinché l’utente sia sempre più libero di scegliere il medico o la struttura che è di maggiore suo gradimento, affinché possa interagire con gli operatori in un rapporto realmente collaborativo, per aumentare la possibilità di adesione ai trattamenti, che devono sempre essere proposti in modo aperto ed ampio. Le aziende sanitarie che gestiscono le strutture per la Salute Mentale dovrebbero quindi far convergere le risorse laddove il cittadino preme di più la sua richiesta di aiuto, perché la trova più adatta a sé: questo sarebbe in linea con le normali “leggi di mercato” per l’ottimizzo delle risorse e dei servizi offerti. La rigidità di alcuni servizi che fanno resistenza alla possibilità che il cittadino non possa liberamente scegliere da chi farsi curare è una prerogativa purtroppo solo della psichiatria: tutte le strutture sanitarie infatti accolgono gli utenti che scelgono liberamente dove curarsi.

La gestione dei casi dovrebbe essere aperta alla possibilità di collaborazione con le risorse territoriali, come le associazioni di volontari, per una gestione dei centri adeguata al principio della integrazione e della inclusività, dove la normalità entra nelle strutture psichiatriche e contribuisce a creare sinergia sociale e promozione delle individualità.

L’accettazione della diversità, nelle scelte e negli orientamenti di cura, dovrebbe essere prevista di norma, in quanto i protocolli medici, utili da un lato, quando gestiti troppo rigidamente rischiano di escludere fondamentali risorse al servizio di una strategia di cura che tenga conto della unicità della persona, che non sempre ha solo bisogno del farmaco per innescare un vero processo di guarigione; è anche per questo che ci ammaliamo, perché siamo schiacciati da tutte le aspettative non autentiche della nostra vita che non consentono un adeguato dialogo interno e poi relazionale. Non riusciamo quindi, purtroppo, ad essere veramente noi stessi, a trovare e vivere il nostro Vero Sé.

 

5 - IL SERVIZIO PSICHIATRICO DI DIAGNOSI E CURA (SPDC). Svolte tutte le procedure di legge per il TSO, il luogo dove può essere assistito il paziente, in regime di ricovero coatto, è il reparto ospedaliero per la psichiatria (SPDC) che è lo stesso reparto dove avvengono anche i ricoveri volontari. Questo comporta che esista, di fatto, un unico modo in cui viene fornita l'assistenza psichiatrica ospedaliera. Il reparto di psichiatra infatti si differenzia da tutti gli altri reparti ospedalieri per le particolari modalità di gestione della relazione col paziente che, essendo improntata sulla necessità di controllo, non favorisce la libera volontà di scelta del paziente nel determinare il proprio percorso di cura.

Abbiamo già detto che la crisi rappresenta un momento importante per rivedere le criticità del proprio cammino esistenziale. Se la crisi si manifesta sul piano psico biologico sotto forma di sindrome clinica, ovvero con manifestazioni sintomatologiche che necessitano anche di una cura medica, è altrettanto vero che la cura inizia e prende un rapido avvio verso una risoluzione se il medico riesce, fin da subito, ad aprirsi ad una sincera ed autentica volontà di incontro umano con il paziente. Intendo dire che, per la mia esperienza personale con persone in fase di scompenso psichico anche grave, la capacità di entrare subito in relazione empatica con il dramma vissuto in quel momento dalla persona che chiede aiuto, favorisce la adesione alle cure farmacologiche ed anche una pronta risposta ai farmaci consigliati. È una grande gioia vedere nelle ore successive e nei primi giorni un evidente miglioramento della sintomatologia, ed instaurare così un programma di cura che è anche e soprattutto un progetto di nuova vita. Se la persona non ritrova in occasione della crisi e delle cure una nuova speranza di vita, per lei gradita e congeniale, ritengo che nessuna cura farmacologica possa essere realmente efficace.

Ma torniamo ai presupposti ideologici previsti dalla legge per il ricovero ospedaliero in psichiatria. Se il reparto è stato chiamato servizio psichiatrico di DIAGNOSI e cura, vuol dire che il paziente ricoverato ha bisogno di una diagnosi prima di decidere la cura, e qui ovviamente possiamo aprire un dibattito. Perché un paziente che ha già effettuato due consulenze che hanno già sentenziato una patologia grave, che richiede un ricovero coatto, dovrebbe essere di nuovo diagnosticato? Evidentemente la complessità della psiche umana e delle sue reazioni ad disagio, con tutte le sue manifestazioni, ha molto a che fare con la dinamica relazionale in atto in quel contesto sociale o familiare. Non è infrequente infatti che la diagnosi del foglio di dimissione sia diversa da quella ipotizzata dai medici che hanno richiesto il ricovero. Per non parlare poi di quanto possa influire l'approccio dei sanitari nel favorire o determinare reazioni, anche intense, del paziente, che sono direttamente collegabili al disagio profondo che un atteggiamento umano pregiudizievole e critico può avere in persone che si trovano già in una condizione di disagio e di fragilità emotiva. La reazione negativa del paziente, che può portare anche al ricovero, non è solo dovuta al suo disagio psichico iniziale, ma può essere anche dovuta ad un approccio sbagliato dei sanitari. Ne deriva che la carriera della persona sofferente è pesantemente influenzata dal tipo di mentalità con cui ci avviciniamo ed interagiamo, e dal tipo di pregiudizi ideologici che esercitiamo. La diversità è un elemento caratterizzante l'umanità. Esiste un'unica razza umana fatta di persone che sono in qualche modo irrimediabilmente diverse. Queste diversità non sono solo presenti in gruppi etnici o culturali diversi, ma in ogni gruppo familiare c'è almeno un diverso. Questa verità psico biologica e psico spirituale è alla base del ragionamento che dobbiamo assumere. La libertà di espressione degli individui deve essere più ampia di qualsiasi ideologia. Se la psichiatria non è in grado di organizzare la sua attività intorno a questo concetto, non sarà mai in grado di svolgere un corretto lavoro per la salute mentale. Che la psichiatria sia orientata al controllo della diversità è un fatto di una gravità inaudita che annulla tutto il suo potenziale di cura e di guarigione del disagio umano.

Con questa ipotesi possiamo capire come mai nel reparto di psichiatra si arrivi infatti alla più aberrante delle procedure, ovvero il contenimento fisico del paziente. E non diciamo per favore che il paziente viene legato per proteggerlo o per proteggere gli operatori. Se così fosse avverrebbe sicuramente con altre modalità. Quindi una persona che non è riuscita a trovare un adeguato ascolto e accoglienza di sé nella sua normale vita sociale e familiare, che non ha trovato neanche in occasione delle cure mediche e psicologiche ambulatoriali un modo di riprendere un suo equilibrio psichico, incapace di esprimere adeguatamente le remote cause del suo profondo malessere esistenziale, che diventa poi psico biologico, si ritrova a perdere completamente la speranza di un valido aiuto. Se i medici capissero che la speranza è un farmaco, non la farebbero mai mancare nelle loro cure ai pazienti. La libertà di cura implica un dialogo, un consenso informato, una apertura ai diversi approcci possibili, perché persone diverse hanno bisogno di percorsi diversi. Un modo unico di procedere quindi causa per forza una cattiva assistenza in una parte della popolazione. È assolutamente necessario un serio dibattito per un rinnovamento sostanziale della organizzazione della realtà di cura territoriale per la psichiatria. Non possiamo più accettare infatti che la vecchia mentalità manicomiale, con la chiusura dei manicomi anziché decadere si sia semplicemente espansa nel territorio.

 

6 - BOZZA DI CONSENSO INFORMATO. Con questo scritto desideriamo informarLa che i diversi tipi di cura e le normali strategie terapeutiche attualmente a disposizione, necessitano sempre di una collaborazione al progetto terapeutico, collaborazione che è necessaria ed indispensabile per un buon andamento della cura, e che è possibile solo se si instaura un dialogo aperto tra terapeuta e persona che riceve le cure.

 

I diversi presidi a disposizione, sul versante psicobiologico e sul versante psicospirituale, offrono infatti un ventaglio molto ampio di possibilità, che vanno valutate insieme, affinché possa attuarsi fattivamente il principio della libertà di cura.

Il numero elevato di psicofarmaci a disposizione, l'enorme quantità e diversità degli approcci psicoterapeutici esistenti, le numerose evidenze scientifiche che confermano l’efficacia delle pratiche meditative, la validità degli approcci umanistici nel favorire la ricerca del senso della vita, gli indubbi collegamenti che esistono tra i diversi aspetti in gioco, la dimostrata efficacia nella integrazione dei diversi approcci, le evidenze scientifiche che sottolineano la necessità di non fermarsi ad un tentativo di cura, ma di mirare decisamente, con tutti i mezzi possibili, al raggiungimento di un benessere fisico e psicologico, richiedono un approccio di cura libero da qualsiasi pregiudizio ideologico e culturale.

 

Ciò premesso, Con questo scritto Le chiediamo se è favorevole nell'accettare che l'approccio a Lei fornito in occasione del Suo percorso di cura, sia liberamente condotto secondo un approccio integrato, dove volta per volta verrà informato sulle modalità di cura strategicamente proposte in quel determinato momento, al fine che Lei possa esercitare la Sua libera scelta sulla strategia di cura.

 

7 – IPOTESI DI VIOLENZA ASSISTITA. La violenza assistita è la condizione in cui una persona si trova ad assistere ad un episodio di violenza fisica o psicologica condotta da una persona o un gruppo di persone vero un essere umano che non può fare nulla per evitarla, e senza che la persona che assiste sia nella possibilità di intervenire. Conosciamo bene la violenza assistita che si svolge in famiglia quando per esempio un uomo picchia o vessa la moglie di fronte ai figli, ma nessuno parla della violenza fisica o psicologica che gli operatori sanitari esercitano verso i pazienti, senza che altri operatori possano intervenire. Si tratta di quindi di violenza fisica o psicologica legalizzata e di violenza assistita legalizzata. Lo stesso vale quando i pazienti devono assistere impotenti alla violenza fisica o psicologica dei sanitari verso un altro paziente, o quando i familiari devono assistere impotenti alla violenza fisica e psicologica verso il loro congiunto. Quale danno ne deriva per tutti coloro che non sono potuti intervenire di fronte a questo tipo di abuso?

 

8 - RIFLESSIONI CONCLUSIVE. Fra tutte le branche della medicina spetta alla psichiatria dare inizio ad un nuova era della salute e del benessere più conforme alla natura essenziale dell'uomo, che è biologica, psicologica, spirituale.

La libertà di cura non è abbandonare la persona nel suo nulla, ma accompagnarla e sostenerla nella sua ricerca di equilibrio fisico e psicologico. Se la vita ha un senso, questo non può essere perso senza un dolore che emerge dal profondo. Non siamo macchine che funzionano in modo automatico, non siamo oggetti passivi da sistemare a piacimento dove il sistema desidera. Siamo il cuore della creazione, esseri pieni di senso. Un potere organizzato che sopprime e irretisce i singoli individui nella loro libera espressione di sé, opprime e fa ammalare. Se la psichiatria non diventa la punta di diamante della svolta epocale dell'umanità, collaborando con tutte le risorse presenti nel territorio, affinché l'uomo possa sentirsi accolto nella sua unicità, allora causerà ulteriore sofferenza a coloro che si erano invece avvicinati per trovare sollevo.

L'immagine di un uomo che preme il suo ginocchio con inaudita ferocia sul collo di un altro uomo, fino a togliergli la vita mentre grida "non riesco a respirare" è emblematica di come le istituzioni, nel tentativo di creare occasione di giustizia, in realtà, sopprimendo ogni speranza di verità autentica sul senso delle cose, siano causa di morte psichica prima ancora che fisica. Tutti gli uomini sono mancanti e hanno i loro limiti, ma è l'amore incondizionato, frutto di vera sensibilità umana, che può fare guarire le persone dalla loro disperazione.

Quante persone invece la psichiatria riesce ad a annientare, a distruggere nella loro natura più essenziale ed autentica, trascurando l'obbligo del consenso informato, della libertà di scelta del medico e delle cure, venendo meno alla deontologia ed al giuramento di Ippocrate, che dice "prima di tutto non nuocere" trascurando le leggi e infrangendole impunemente?

Il consenso informato dovrebbe essere alla base del lavoro di tutti i medici, non solo di alcuni, alla base di tutte le terapie, non solo di alcune. Dovrebbe essere quindi sempre meglio adottata una maggiore apertura e un dialogo costruttivo tra medico e paziente anche nel delicato e difficile campo delle cure psichiatriche, perché l’alleanza umana, che è alleanza terapeutica, è la base della adesione alle cure e la premessa quindi dei buoni risultati della terapia.

 

A parere dello scrivente, le gravi carenze e criticità che tutt’oggi sussistono, dovrebbero essere analizzate ed indagate nei seguenti punti: la presa in carico dei pazienti, con troppa facilità rimandati al medico curante, le procedure di presa in carico o di archiviazione nel CSM, la libertà di scelta del medico, il ventaglio di offerta terapeutica, quasi esclusivamente farmacologica, le procedure del TSO che non vengono rispettate, la applicazione del consenso informato praticamente inesistente in psichiatria.

 

 

PARTE SECONDA

 

Il trattamento sanitario obbligatorio prevede la difficoltà della persona ad accettare cure urgenti e necessarie. Nella maggioranza dei casi, ciò che si rifiuta non è l’aiuto terapeutico in sè, ma quella particolare proposta di cura, fatta in quel modo e maturata in quel contesto. Cambiando i parametri, cambia il tipo di reazione della persona alla proposta di aiuto. Ne consegue che esistono ampi margini di intervento per ipotizzare che, nella maggioranza dei casi, si può arrivare ad una collaborazione alla proposta di cura. Quando essa viene percepita dalla persona come una autentica proposta di aiuto e non come una svalutazione della unicità della persona il percorso diventa più agevole. Inoltre, la residua minoranza dei casi su cui non si dovesse riuscire al evitare il TSO, stimabile all’incirca nel 10-20% dei TSO attuali, le modalità di attuazione potrebbero essere ben diverse. Ciò significa che circa l’80-90% dei TSO sarebbero evitabili. L’attuazione di questo programma, perfettamente in linea con la legge attuale, presuppone un diverso coinvolgimento ed una nuova modalità di collaborazione di tutte le agenzie coinvolte nella dinamica della legge, ovvero medici, psicologi, infermieri, avvocati, sindaci, assistenti sociali, vigili urbani, amministratori di sostegno, volontari.

 

IN SINTESI ECCO LA PROPOSTA. Partendo direttamente dal momento in cui il medico valuta la necessità di compilare una PROPOSTA di TSO, il programma prevede un iter in linea con la legge attuale, ma più rispettoso della dignità della persona di quanto normalmente non si metta in atto nella pratica oggi, un iter che dilata le modalità operative di quel tempo di valutazione e di attuazione, con l’affiancamento di un legale e di uno psicoterapeuta volontari, capaci di dialogare con la persona sulle reali prospettive di cura. A questo proposito si richiede agli ordini professionali degli avvocati e degli psicoterapeuti di stilare un elenco di professionisti disponibili a questo particolare tipo di intervento, che presuppone una disponibilità particolare che non può essere imposta d’ufficio. E’ molto importante infatti che queste figure siano esterne alla dinamica, specificamente orientate alla prevenzione del TSO, disponibili ad uno specifico lavoro che probabilmente non può essere attuato dagli operatori della struttura pubblica coinvolta nel caso. L’avvocato ed il terapeuta avrebbero la finalità di sostenere la persona nelle sue valutazioni sul da farsi, specificando che la adesione alle cure non prevede per forza l’accettazione passiva di un determinato farmaco imposto dalla visione di quel medico, ma l’accettazione di un intervento di cura fra i tanti possibili, dando quindi alla persona un sufficiente margine di scelta. L’avvocato sosterrebbe il paziente spiegando la reale possibilità che nel colloquio successivo, effettuato dallo psichiatra, si potrebbe arrivare ad una CONVALIDA del TSO, e quindi dalla perdita della libertà e possibilità di cure forzate, perché questo è previsto dalla legge, e inoltre sosterrebbe i sanitari per evitare eventuali abusi. E’ molto frequente infatti che i pazienti vivano come un reato il TSO pe mancanza di adeguate informazioni preventive. Lo psicologo verificherebbe la eventuale presenza di resistenze irrazionali e le presenza di dinamiche relazionali alla base del rifiuto, che possono essere in quel contesto eventualmente messe in campo come elementi di realtà, per una acquisizione di una maggiore consapevolezza, e quindi eventualmente superate.

Nel caso di CONVALIDA, anche qui si richiederebbe un iter attuativo più attento e dilatato, con la richiesta al Sindaco di attuare una ulteriore verifica prima della compilazione della ordinanza, con l’intervento degli assistenti sociali, affinché il cittadino possa presentare eventuali necessità, in collaborazione con le altre figure coinvolte. 

L’attuazione del TSO dovrebbe essere sempre fatta con criteri di rispetto della dignità umana e deontologia medica, ovvero mediante il trasporto in ospedale, con l’eventuale ausilio dei vigili urbani, che non possono avere funzioni sanitarie, evitando interventi sanitari incongrui in ambiente incongruo. Solo nel contesto ospedaliero possono essere fatte le opportune valutazioni cliniche, ovvero diagnostiche e poi terapeutiche, perché le cure possano essere attuate efficacemente solo dopo una corretta valutazione diagnostica. Ricordo infatti che il reparto si chiama Servizio Psichiatrico di DIAGNOSI e Cura. Non sarebbe per nulla strano qualche giorno di osservazione senza necessariamente un intervento farmacologico estremamente invasivo.

Altro particolare punto sul quale si dovrebbe porre una certa attenzione è la possibilità che la persona accetti le cure dopo l’emissione dell’ordinanza, e si possa quindi attuare la REVOCA del TSO e la prosecuzione delle cure in modo volontario (TSV) possibilità già prevista per legge ma quasi mai applicata. Per questo è necessario il sostegno dell’avvocato alla persona ricoverata anche nei giorni successivi, per collaborare col medico e con il paziente, ed evitare quindi che la mancata verifica e attuazione del procedimento di legge possa essere configurato come omissione di atti d’ufficio e illecito civile.

Durante il ricovero è inoltre opportuno l’eventuale intervento della figura dell’amministratore di sostegno e di volontari.

Il sindaco, mediante gli assistenti sociali, sosterrebbe la persona che ha temporaneamente privato della libertà,  mediante una valutazione dello stato personale e sociale alla dimissione.

Vale la pena di spendere ancora qualche parola sulla eventuale necessità di contenzione fisica. Nel progetto sperimentale si tenderebbe ad abolirla quasi del tutto, visto che le modalità qui suggerite di attuazione della legge sono grandemente favorevoli nell’ottenere una adesione alle cure ed una sufficiente collaborazione. Ma nella eventualità infrequente che proprio non possa esser evitata, si richiede un particolare collaborazione ad attuarla per un tempo minimo, ovvero non più di 3-6 ore, e soprattutto con la costante presenza di un infermiere, in alternanza per non più di un’ora per operatore, per il sostegno umano e la sicurezza della persona, ma soprattutto per cogliere la eventuale volontà di collaborare per un trattamento più adeguato. In questo caso andrebbe subito richiesto l’interessamento dei dirigenti medico e psicologo.

Lo spirito della proposta è finalizzato ad una apertura della dinamica collaborativa a tutte le figure indispensabili in questa particolare modalità di intervento e di cura. Potrebbe essere detto che la figura dell’avvocato non sembrerebbe indispensabile in un progetto che è clinico, ma nel momento stesso in cui la procedura prevede la privazione pur temporanea della libertà, diventa implicito l’aspetto giuridico. Non possiamo quindi assolutamente trascurare questi aspetti finché rimane in vigore la legge attuale.

 

Grazie per la cortese attenzione.

 

Dott. Enrico Loria

Psichiatra e Psicoterapeuta

360.914953

enricoloria@tiscali.it

enrico.loria@atssardegna.it

 

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